Giochi e colori nel cortile sotto casa

Giochi e colori nel cortile sotto casa

Una selezione del racconto autobiografico di Silvana Nicotra Nautilus Ascolto sensibile di sé e dell’altro “Giochi e colori nel cortile sotto casa” a cura di Silvana Nicotra Aprile 2017

Scritture solidali
Scritture autobiografiche di redenzione e rinascita che mettono in luce sentimenti di solidarietà verso sé stessi, gli altri e il mondo, e sollecitano un’autentica solidarietà fra le lettrici e i lettori.
Archivio della memoria e dell’immaginario siciliano
Ateliers dell’immaginario autobiografico © OdV Le Stelle in Tasca

Giochi e colori nel cortile sotto casa
Silvana Nicotra

Quando penso a quando ero piccola mi viene subito l’immagine del cortile sotto casa dove io trascorrevo gran parte della giornata.

A casa eravamo otto figli, cinque fratelli e tre sorelle, me compresa. Lavorava solo mio padre, mia madre era una persona semplice e intelligente sapeva come risparmiare e non farci mancare le cose primarie.

I miei cinque fratelli avevano più o meno la mia stessa età. Io ero la loro mascotte, mi facevano tante coccole. Parlavano sempre di calcio, a volte si prendevano gioco di me perché non conoscevo i personaggi delle loro figurine di calciatori. Gianni, Agatino e Alfio tifavano per la Juventus, mentre Franco e Melo tifavano per il Milan.

Io non tifavo per nessuna squadra, volevo solo giocare un po’di più con loro, per questo non sopportavo il calcio.

Mi ricordo ancora l’odore nauseante della colla delle figurine, quell’odore che sprigionava quando staccavano gli adesivi per riempire i loro album.

Le mie sorelle maggiori non sono state compagne d’infanzia, c’era molta differenza di età.

La più piccola era fidanzata “ufficialmente”. Una volta si diceva così, quando i genitori del figlio maschio andavano a casa della fidanzata per conoscere i genitori. La cosa che mi stupì molto è stata quando ho sentito che si chiamavamo commare e combare delle persone che non si erano mai viste prima. Stranamente si comportavano come se si conoscessero da una vita.

Il fidanzato di mia sorella era molto timido, diceva che soffriva di gastrite. La sera a cena mia madre comprava 100 gr. di fiaschetta, solo per lui. Si trattava di un gustoso formaggio stagionato a pasta filata dalla forma sferica. Per questo veniva chiamato fiaschetta. Quel formaggio mi piaceva tanto, purtroppo mia madre non poteva comprarlo per tutti. La sera preparava delle minestre di verdure o della pasta. Il piatto più frequente era la pasta con la lattuga con tanto brodo e olio di oliva. Quando capitava che il fidanzato di mia sorella non veniva, mi precipitavo nel frigo per mangiare insieme ai miei fratelli quel gustoso formaggio rimasto.

Consideravo il cortile come una seconda casa dove poter manifestare me stessa in libertà senza timore che mia madre o le mie sorelle maggiori mi sgridassero. All’interno di questo cortile molto grande si affacciavano le case a piano terra e i balconi dei vecchi palazzi che arrivavano fino al terzo piano.

Ricordo ancora il nome dei miei compagni Francesco, Fina, Cristina, Melina e Laura che non vedo da allora. Non ho mai voluto dimenticare i loro nomi, così se un giorno dovessi incontrarli saprò riconoscerli, se non altro per nome. Sono passati ormai tantissimi anni. Avevo solo 10 anni quando ho cambiato casa, da allora non li ho più rivisti.

Le case a piano terra del cortile erano colorate tra il verde ed il marrone ed allestite con dei portali bianchi ricamati. Ogni angolo del cortile raccontava la sua storia. Dalle case si sentivano gli odori della cucina, le risate e a volte i litigi di marito e moglie.

La Sig.ra Fina aveva un aspetto esile, gli occhi tristi che si intravedevano chiaramente dal suo viso scoperto dai capelli sempre legati. Di giorno teneva la porta spalancata, ogni tanto usciva per ricordarci di stare lontani dall’uscio di casa sua, specie nel pomeriggio quando tornava il marito dal lavoro. Questo destava la nostra curiosità, tanto da aspettarlo tutti i pomeriggi intorno alle cinque, per guardare da lontano la sua camminata rigida. Non sapevamo spiegarci come faceva a camminare senza piegare le gambe. Noi di nascosto ridevamo facendo attenzione a non fargliene accorgere.

Drizzavamo le orecchie per sentire il volume del suo vocione che non diventasse un pericolo per la moglie, perché quando si arrabbiava di brutto si trasformava in un orco, tanto che la donna usciva di casa per chiedere aiuto alla vicina.

Di fronte abitava una donna bassina con i capelli corti ricci e lo sguardo di chi si è dovuta rimboccare le maniche crescendo da sola la propria bambina. La Sig.ra Marta abitava nell’angolo più soleggiato del cortile, aveva la passione dei pomodori secchi, il suo davanzale era inavvicinabile per via dei suoi pomodori ricoperti da un velo bianco in attesa dell’essiccazione.

La più buffa era la Sig.ra Giuseppa detta “Peppina”, era una donna grassa, i capelli ricci bianchi e le labbra così larghe da divorare un pasto in pochi secondi. Dalla finestra di casa sua si sentivano gli odori inebrianti dei piatti tipici siciliani. Il suo piatto forte era la parmigiana. Ogni pomeriggio, intorno alle cinque, si sedeva davanti la sua porta e mangiava una pagnotta all’olio morbida ripiena di parmigiana.

Era l’ora della merenda, io avevo fame. L’odore della melenzana fritta e la salsa con il basilico erano così buoni da farmi rimanere incantata. La guardavo da lontano immaginando come doveva essere buono quel panino. Appena lei si girava verso di me, facevo finta di niente.

Dopo un po’ mi precipitavo a casa per cercare qualcosa da mangiare nel frigo e nella credenza. Quello che trovano, non era mai così buono, come quel panino caldo ripieno di parmigiana. La voglia di mangiare qualcosa era così tanta da accontentarmi del pezzo di pane rimasto a pranzo. A volte non trovavo neanche quello.

Scendevo nuovamente in cortile delusa. Dopo un po’ cominciavo a giocare e dimenticavo tutto, persino la fame.

Mi piaceva tanto giocare a guardia e ladri. Per rendere il gioco più divertente, suggerivo ai miei compagni il reato da compiere e poi scappare per trovare un posto dove nascondersi, cosi io potevo inseguirli e scoprire i loro covi.

La domenica pomeriggio li facevo salire nel terrazzino di casa mia, dove mi piaceva costruire con le sedie ed una grande coperta, il mio piccolo palco scenico. Per partecipare allo spettacolo chiedevo una monetina da 20 lire. Mi servivano per comprare le merendine che distribuivo durante lo spettacolo.

Allo spettacolo partecipavano pure i miei fratelli, quello era l’unico modo per stare un po’ con loro. Furbetti come erano, pretendevano la merendina senza pagare le venti lire previste per la visione dello spettacolo.

A volte le monete non erano sufficienti per comprare le merende per tutti. Per farle bastare ero costretta a dividere in due ogni merendina e avvolgerle pezzo per pezzo nei tovagliolini.

La sera prima di addormentarmi pensavo alla storia che dovevo inventare per lo spettacolo successivo. Puntualmente il giorno dopo dimenticavo tutto, sicché ogni spettacolo era nuovo e pieno di soprese.

La domenica era solo puro divertimento, ma quando giocavamo nel cortile dovevamo fare i conti con le persone che ci rimproveravano. Dicevano che facevamo troppo baccano. Noi li rassicuravamo, promettendo quello che non potevamo mantenere. Dopo un po’, puntualmente, ci scordavamo di quella promessa e ricominciavamo a giocare ridendo e a volte urlando a squarciagola.

Lo facevamo senza rendercene conto, si sa, quando i bambini giocano difficilmente riescono a controllare i loro impulsi.

La Sig.ra Nunziatina era quella che si lamentava più di tutti. La sua voce sgargiante era rivolta verso le nostre case. Il suo intento era quello di richiamare l’attenzione dei nostri genitori. Le nostre mamme facevano finta di non sentire per evitare di litigare. Del resto giocare nel cortile era un nostro diritto.

A volte si affacciava mia mamma per calmare le grida della Sig.ra Nunziatina. Mia madre non amava litigare, perciò, faceva finta di darle ragione, e diceva: “Sig.ra avi ragiuni, ma chi ci putemu fari, su tosti, ma su macari nichi e ana ghiucari”. E la Signora: “Si si, almenu lei s’affaccia, ma l’autri mammi fanu a finta di non sentiri, anu na facci!”

Noi ridevamo sotto i baffi e continuavamo a giocare. Non c’era verso di fermarci, tutti i pomeriggi scendevo in quel cortile dove trascorrevo i momenti più belli della giornata.

Un giorno la mia compagnetta Melina mi disse che io non potevo scendere in quel cortile perché il portone di casa mia era nella strada, mentre nel cortile si affacciavano solo i balconi. Melina aveva un carattere introverso, era scontrosa con tutti, spesso litigava e si lamentava per ogni cosa. Io al contrario di lei, pensavo sempre e solo a giocare, qualsiasi cosa mi andava bene, purché era divertente. Quando lei mi diceva questo, io la chiamavo Melania, anziché Melina, sapevo che lei detestava essere chiamata con questo nome e rispondevo che il cortile apparteneva anche a me, proprio perché si affacciavano i balconi di casa mia.

Un giorno mi sentivo molto triste. A scuola i miei compagni parlavano tra di loro del vestito in maschera che avrebbero indossato di pomeriggio. Era il giorno di Carnevale. Per evitare di partecipare alla conversazione mi sono allontanata facendo finta di scrivere. Avevo paura mi domandassero come mi sarei vestita. Non avevo un vestito in maschera, mia madre non poteva comprarmelo.

Eravamo otto figli, se avesse comprato un vestito in maschera per me, doveva comprarlo anche per i miei fratelli e purtroppo questo non poteva permetterselo. Quel giorno rientrai a casa molto dispiaciuta, avevo trascorso una brutta mattinata. Il pomeriggio non si prospettava migliore della mattina, sapevo che i miei compagni sarebbero scesi nel cortile con i loro vestiti in maschera.

Quello stesso giorno a pranzo mia madre aveva preparato la pasta con la ricotta. Un piatto che io non amavo tanto, l’istinto mi ha portato a spostare il piatto in avanti in segno di rifiuto. Mio padre mi lanciò uno dei suoi sguardi severi, di quelli che non lasciano scampo. Nel giro di pochi minuti finisco il piatto fino all’ultimo boccone. Vi confesso che avrei saltato volentieri l’ora di pranzo. Avrei voluto andarmene a letto e dormire fino alla fine del Carnevale, e cioè, fino al giorno delle Ceneri, ma questo non era possibile.

Mi sentivo molto irrequieta, sapevo che avrei trascorso tutto il pomeriggio a casa, mi vergognavo di scendere in cortile senza un vestito in maschera. Erano le cinque di pomeriggio, ed era già buio. Il cortile era poco illuminato dalle lampadine davanti alle case. C’era aria di festa, le lampadine erano accese di proposito in occasione della festa del Carnevale.

Dal balcone del secondo piano di casa mia potevo guardare i miei compagni giocare, senza essere vista. Sono rimasta lì, tutto il pomeriggio. A volte chiudevo gli occhi per lasciarmi andare con l’immaginazione. Mi vedevo con un vestito di fata azzurro con tante stelle di un colore dorato, così luminoso da far brillare tutto il cortile. D’improvviso il ritorno alla realtà, aprivo gli occhi e non potevo fare a meno di constatarla. Sono rimasta seduta con le ginocchia piegate per molto tempo, tanto da sentire un forte formicolio alle gambe.

Avevo le mani fredde: “Forse è il caso di rientrare a casa”, mi sono detta. Mentre mi accingo ad entrare tutta infreddolita, sento che una delle mie compagne fa il mio nome. Rimango ferma, come paralizzata bloccando il respiro, quasi avessi paura mi sentissero respirare. Sbircio le orecchie per ascoltare quello che stavano dicendo di me. Si chiedevano come mai non ero scesa in cortile a giocare con loro, come facevo tutti i pomeriggi. Dopo questo, non ho sentito più niente perché hanno cominciato a parlare sottovoce. D’un tratto Milena, la più antipatica del gruppo, con la sua voce da gallina strozzata dice a voce alta: “Secondo me non è scesa perché non ha un vestito di Carnevale. Non vi ricordate? Lei non ha mai avuto un vestito in maschera”. Continua dicendo: “Che scende a fare! Si sa che senza un vestito di Carnevale non può giocare con noi!”

In quel momento mi sarei affacciata e gridare il nome Melania, anziché Melina, cosa che lei detestava!

L’avrei chiamata così tante volte da farla ritirare a casa con il suo vestito da streghetta che a mio parere ci stava a pennello. Un’altra delle mie amiche dice di avere un’idea, e che per realizzarla aveva bisogno dell’aiuto della zia Concetta che abitava in una delle case del cortile. L’idea era quella di far parlare la zia con mia sorella per renderla complice di una sorpresa che lei ed il resto delle mie compagne volevano farmi.

Dopo un po’ sento suonare il campanello di casa mia, mia sorella scende le scale per aprire il portone. In quella casa non avevamo il citofono, quando mia sorella vide la zia Concetta, si spaventa, pensando che mi era successo qualcosa. Non si era accorta che ero rimasta tutto il pomeriggio nel balcone. Mi affaccio dal pianerottolo del secondo piano e con grande stupore vedo che la zia Concetta consegna una busta di plastica piuttosto voluminosa con dentro, non si sa che cosa. Gli dice qualcosa all’orecchio, mia sorella muove la testa in avanti in segno di consenso e sorride. Ringrazia, e dopo aver salutato la zia Concetta, sale le scale a due a due.

Con gioia e grande entusiasmo mi fa vedere cosa c’era dentro la busta bianca voluminosa. Esce fuori un vestito di fata azzurro leggermente stropicciato.  Era il vestito in maschera che aveva indossato l’anno prima, la mia compagnetta Fina. Ad un tratto il mio cuore comincia a battere forte forte dalla gioia. Indosso, con l’aiuto di mia sorella, il vestito azzurro. Anche se stropicciato e con un leggero odore di naftalina, per me era il più bel vestito che avevo mai indossato.

Scendo le scale, corro nel cortile per abbracciare le mie compagne, nel frattempo, con aria da ladruncola, sfilo dalla tasca del vestito in maschera della mia amica, il pacco di coriandoli. Butto in aria e addosso alle mie compagne i coriandoli, lo stesso fanno loro con me. Nel giro di poco tempo finiamo tutti i coriandoli.

Non potrò mai dimenticare la gioia che ho provato quel giorno di Carnevale, quando ho potuto sperimentare che anche i momenti più tristi si possono trasformare in momenti di gioia, basta poco. A volte dobbiamo lasciarci andare e ritrovare lo stesso stato d’animo che ci ha fatto gioire durante la nostra infanzia. La spensieratezza, la capacità di affrontare le cose con più leggerezza è la mia caratteristica. Non è sinonimo di immaturità, bensì la capacità di avere il giusto spirito in ogni situazione da affrontare.

Penso che in ognuno di noi c’è il nostro bambino interiore che non smette mai di desiderare di giocare. La sua voce è chiara ed è quella che ci fa entrare in contatto con il nostro io più profondo. Per entrare in sintonia con i compagni è bastato un piccolo gesto di affetto e di amore, un sorriso.

Conservo questo ricordo come un dono prezioso di vita per me e per gli altri.