A scuola fuori stagione

A scuola fuori stagione di Nina Di Nuzzo Micalizzi

Una selezione del racconto di Nina Di Nuzzo Micalizzi tratto dall’opera “Dicia me’ Nonna” premiata nella sezione autobiografie della 1a edizione di Thrinakìa 2013-2014 – Premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia

Scritture solidali
Scritture autobiografiche di redenzione e rinascita che mettono in luce sentimenti di solidarietà verso sé stessi, gli altri e il mondo, e sollecitano un’autentica solidarietà fra le lettrici e i lettori.
Archivio della memoria e dell’immaginario siciliano
Ateliers dell’immaginario autobiografico © OdV Le Stelle in Tasca

A scuola fuori stagione
Nina Di Nuzzo Micalizzi

Mio marito sapeva quanto avevo sofferto per quella scuola che avrei voluto frequentare e non avevo potuto. Mi tornò in mente quando eravamo sposini e lui mi consolava a suo modo: “Se avessimo i soldi ora tu ti potresti iscrivere a scuola”! E me l’avrebbe consentito di sicuro, ma ci mancava tutto allora, non avendo spesso nemmeno le cose più necessarie e indispensabili. Perciò, altro che scuola! E ancora una volta ho dovuto accantonare quel desiderio, mettendo a tacere quella aspirazione per sempre, come a malincuore ero convinta. Ed ecco che adesso all’improvviso, dopo tanti e tanti anni, inaspettatamente si presentava l’occasione e lui non voleva lasciarmela sfuggire. Certo era completamente fuori stagione, avendo compiuto ben 63 anni!

Eppure azzardai: seduta su quei banchi di scuola, i miei sentimenti si accavallavano. Piangevo, ridevo e mi interrogavo: stavo facendo una pazzia? Era giusto dire ai miei figli che non avrei più potuto accudire i nipotini? È vero che ormai erano cresciuti e non era indispensabile il mio aiuto, ma mi sembrava che stavo facendo, comunque, un torto a tutti, grandi e piccoli. E poi che cosa avrebbero detto di questa mia novità?

Il mio nipote più grande, che in quel periodo faceva il militare, è stato l’unico a manifestare perplessità. Tutti gli altri sono stati felici e contenti di quella decisione, facendomi sentire più serena e tranquilla per la scelta compiuta. Tardiva, è vero, ma tanto desiderata, come ben sapevano.

La professoressa d’italiano, una persona di grande umanità e immediata comunicativa, oltre che bravissima insegnante, appena mi vide mi disse, riferendosi al libro autobiografico che avevo pubblicato: “Signora, io ho letto il suo libro, anzi l’ho letto due volte. Inoltre lo tengo sempre a portata di mano perché ogni tanto vado a rileggere alcune pagine”!

È inutile dire che sono stata l’alunna più anziana e che i miei interessi non erano quelli degli altri alunni, che erano lì perché speravano con la licenza media ottenuta di poter partecipare a qualche concorso e trovare così un posto di lavoro, il più umile purché fisso. A me tornare sui banchi di scuola e respirare l’aria dell’ambiente scolastico sono serviti per ben altri scopi e motivi.

Intanto mi si è risvegliata con prepotenza quella curiosità assopita del sapere e del conoscere, anche se m’accorgevo che la mente non assimilava più come ai tempi delle elementari e mi toccava spesso sollecitare i docenti a ripetere più volte le stesse nozioni per farmele entrare bene in testa, non più abituata com’ero allo sforzo dell’apprendimento e all’esercizio della memoria.

Con mia grande soddisfazione, fra l’altro, ho avuta spiegata la Costituzione Italiana, venendo a conoscere la sua importanza, che fino ad allora conoscevo vagamente: ne ero orgogliosa ed entusiasta e avevo preso tanta consapevolezza del suo valore che mi proponevo di approfondire l’argomento su libri specifici che avrei acquistato appena concluso il corso.

Mi divertii a conoscere l’origine di alcune parole del nostro dialetto, derivate dall’arabo, dal greco, dal latino, dal francese, dallo spagnolo e dalle altre lingue parlate dai popoli che hanno dominato la Sicilia. Durante una di queste lezioni di storia del nostro dialetto, uno degli insegnanti mi propose: “Signora, lei che ha scritto un libro, perché non scrive un raccontino in dialetto siciliano, che inseriremo in un opuscolo dove raccoglieremo i lavori che sono stati fatti durante questo anno scolastico”. Aderii con piacere alla richiesta e tradussi in dialetto un raccontino che avevo già scritto, quello intitolato “Il pullman giusto” che poi fu pubblicato col nuovo titolo “L’autobussu giustu”.

Quando mi accompagnava alle lezioni, mio marito portava con sé lenze e canne, esche e ami, e mi aspettava sulla riva del mare, posta a pochi passi dalla scuola, dedicandosi alla pesca, il suo hobby preferito. Se per caso c’era brutto tempo, rimaneva paziente seduto in macchina a fare cruciverba.

Quando arrivavo a scuola, il bidello, quasi dispiaciuto nel vedermi lì sapendo gli impegni di una persona adulta, mi faceva presente che se c’era qualche impedimento non mi dovevo preoccupare di frequentare con assiduità e che mi bastava di farlo saltuariamente. Lo stupivo rispondendogli che io la scuola la frequentavo perché m’interessava e non c’erano né impegni né sacrifici capaci di costringermi a saltare anche una sola lezione. Ma lui non poteva capire e tornava a darmi gli stessi consigli, come se recitasse una litania, pensando di farmi un piacere.

Ho vissuto un periodo bellissimo, anche per l’armonia che si era creata fra noi tutti, alunni e professori. A turno portavamo dei dolcini per i momenti di ricreazione e gustandoli ci rilassavamo dalle fatiche dello studio.

Fra le tante discipline che comprendeva il corso, oltre alle materie prettamente curricolari, c’era pure il teatro, il ricamo e il rammendo, il dialetto, e la scuola di taglio. Mi venne spontaneo dire che, di quest’ultima, io avevo il diploma che mi abilitava a insegnarla. Così il professore responsabile dei corsi lanciò l’idea che, visto che ero una corsista, non occorreva ricorrere a chissà chi e potevo tenere io quel genere di lezioni.

Fu così che ogni lunedì mi trasferivo in un’altra aula a salire in cattedra e diventare professoressa per due ore, per poi tornare nel mio banco di alunna. Provavo una gran soddisfazione che negli anni seguenti aumentò ancor più, quando la Scuola mi ha chiamata per fare l’insegnante di taglio e cucito durante i successivi corsi.

Ebbi modo anche di imparare qualche parola d’inglese, lingua così importante in questi tempi di globalizzazione per poter comunicare con la maggior parte della gente.

Arrivò a giugno il giorno degli esami (eravamo tutti tesi e tremanti) e coincise col mio onomastico. I miei compagni mi fecero trovare un mazzo di rose rosa e la cosa mi fece oltremodo piacere, essendo una ulteriore conferma che tutti mi rispettavano, soprattutto per la mia anzianità.

Seduta a quel tavolo proclamai: “Esimi professori, mia nonna diceva: Cucuzzi e muluni a tempu ‘i stagiuni (zucchine e meloni a tempo d’estate, cioè nella loro stagione). Io qui, sono completamente fuori stagione, siate comprensivi”! Fu il modo che m’inventai per sdrammatizzare il clima teso, non per accattivarmeli o chiedere indulgenza. Né intendevo “raccomandarmi”: non ce n’era bisogno, perché loro sapevano bene con chi avevano a che fare e che non eravamo più ragazzini.

Quando sono “usciti i quadri” con i risultati ho provato l’ennesima gioia nel leggere: “Ottimo”. E quel lusinghiero giudizio si riferiva a tutte le materie.

Ora che è passato qualche anno, una cosa mi ha addolorata moltissimo: l’immatura dipartita di due di quei miei “compagni” di scuola, Carmelina e Salvatore. Ricordo, rattristata, che questi, che per l’età poteva essermi figlio, era stato emigrante in Germania, aveva due figli e arrivava sempre con qualche minuto di ritardo perché lavorava nei campi. Io gli prestavo il mio quaderno così lui copiava quanto i professori avevano spiegato durante la sua assenza.

La mia licenza media, grazie a mio marito e all’amico Massimo, oltre ad arricchirmi di un’altra esperienza, facendomi anche conoscere tante splendide persone, serve a farmi “vergognare” un po’meno quando mi tocca compilare il mio curriculum.

Prima, alla voce “titolo di studio” dovevo segnare “licenza elementare” e non nascondo che mi sentivo in gran disagio a scrivere quelle due parole, come se lo scarso livello distruzione che esse ufficialmente documentavano fosse stata mia colpa esclusiva.

Adesso posso rispondere alla richiesta di quella voce “licenza media”, due parolette che mi fanno provare un po’ meno imbarazzo e, anzi, un pizzico di comprensibile orgoglio.