Il sogno

Il sogno

Una selezione del racconto di Anna Antonazzo tratto dalla sua autobiografia “Come un gabbiano” premiata nella Sezione Autobiografie della 3a edizione di Thrinakìa 2016-2017 Premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia

Scritture solidali
Scritture autobiografiche di redenzione e rinascita che mettono in luce sentimenti di solidarietà verso sé stessi, gli altri e il mondo, e sollecitano un’autentica solidarietà fra le lettrici e i lettori.
Archivio della memoria e dell’immaginario siciliano
Ateliers dell’immaginario autobiografico © OdV Le Stelle in Tasca

Il sogno
Anna Antonazzo

Strati di stoffe accumulati nel baule del mio animo. Nel profondo dei miei ricordi. Accumulati nel tempo. Anno dopo anno. Giorno dopo giorno. Stavano lì, tranquilli, si fa per dire.

Finché una notte…

Quella notte d’estate, per il troppo caldo, non riuscivo a dormire. Me ne stavo sul terrazzino a osservare le sagome delle case del paese, l’agrumeto e il mare. L’insieme, veniva appena rischiarato da una languida luna crescente.

All’orizzonte, scorgevo le luci tremolanti della Calabria: sembravano a intermittenza. Tale visione, non nuova ma rassicurante, mi trasportò dolcemente in un profondo torpore fino a sognare.

In quell’atmosfera di piacevole abbandono, come per incanto, il baule del mio animo si schiuse liberando pezzi di stoffa che fluttuavano nell’aria, volteggiando, fino a incollarsi su un foglio, creando un collage. Erano stoffe di tutti i generi e di tutti i colori: alcune fresche e leggere, altre più pesanti, altre ancora impolverate e antiche. Quasi barocche. Con sospetto mi avvicinai a esse guardando in tralice e con piena cautela. Quello che vidi era qualcosa di familiare: strati di stoffe che raccontavano la mia storia.

In quel balletto danzante ne adocchiai una che aveva una gran fretta di atterrare sul collage quasi ultimato. La riconobbi subito, non avevo dubbi! «È la stoffa dei miei mini shorts!”, dissi con convinzione “quelli che indossavo da ragazzina». Ricordo che dopo che mia madre li acquistò, una grande delusione trasparì nel suo volto, quando si accorse che il mio corpo non era più quello di una bambina.

Sì, quegli stessi mini shorts che usavo per ballare Gimme some con la mia amica del cuore, chiusi in cameretta.

Scrutai ancora tra le stoffe. Ne scorsi una di raso rosa. Non era mia, ma di mia madre. Ma quanto la usai, per giocare, quella camicia da notte di raso rosa. Un sorriso per il piacevole ricordo vivacizzò il mio viso. Quante volte davanti allo specchio del comò della grande stanza, ma proibita, dei miei, mi esibivo nelle più disparate recite. Ora immedesimandomi in Cleopatra, ora in Venere che emergeva dalle spume dell’Egeo dentro una conchiglia: imitavo la splendida statuetta di Venere con il bordo della conchiglia sbrecciato dal troppo toccarla, e non solo, che si trovava sulla scrivania del salotto. Eh sì!  Conoscevo tutta la poesia a memoria, quella che parlava di lei, ancor prima di studiarla a scuola. A un tratto qualcuno alle mie spalle ne recitò le prime battute: «Miaoo. Né mai più toccherò le sacre sponde…e sorvoliamo. Miaoo!»

«Giramondo?!», dissi voltandomi di soprassalto per la paura e la sorpresa. «L’hai recitata così tante volte questa poesia che anch’io l’ho imparata a memoria», proferì.

Giramondo è il gatto di tutti perché non ha una dimora fissa. Se ne sta tutto il giorno gironzolando, anche nei più reconditi angoli del paese. Conosce, ormai, tutti i quartieri come le sue tasche. Cioè come le sue zampe. Oppure… insomma ci siamo capiti.

Dopo un breve saluto all’ospite, la mia attenzione si rivolse nuovamente a guardare le tante stoffe. Ne fissai una blu. Ricordo bene quando lo indossai! Ero così triste dentro quel delicato abitino blu ricamato a nido d’ape. Avevo detto: «Voglio una sorellina, ma della mia età non così piccola. Quanto dovrò aspettare per giocarci! E poi, se la sbaciucchiano tutti. Non mi vogliono più bene!» «Sbagli!» ammonì Giramondo «non ricordi l’altro giorno al telefono cosa ti sentisti dire: Ciao sorellona, ti ricordi quando mi sollevavi sulle gambe facendo la giostra? Oppure quando recitavi, con le marionette, tutte quelle buffe storie fino a farmi ridere a crepapelle? Bei tempi eh, sorellona».

«Hai ragione Giramondo questa non la possiamo buttare. Forse, allora, avevo percepito male alcune cose».

Dopo un attimo di riflessione per le cose dette, ripresi a esaminare le stoffe.

«Oh no! Queste no! Via, via, buttiamole via! Anche quell’altre!», dissi con voce stentorea di chi è alquanto adirato per gli spiacevoli ricordi.

Quindi: togliendo di qua e togliendo di là, si alleggerì il collage.  Esso ormai appariva a macchia di leopardo o peggio ancora come se avesse l’alopecia.

«Abbiamo creato un bello spazio libero. Vero Giramondo?»

«Sì, “hai” creato un bello spazio…vuoto» rispose allarmato.

All’inizio non capii cosa mi volesse suggerire il gatto. Ma poi, come per incanto, tutto diventò più chiaro.

«Forse hai ragione tu amico mio. È troppo… vuoto! In fondo sono le mie stoffe. Brutte o belle che siano, ma sono mie e mi hanno reso ciò che sono oggi. Dopotutto anche i miei difetti contribuiscono a rendermi unica. Ho capito cosa devo fare! Aiutami Giramondo, prima che mi svegli, riattacchiamole tutte! Anzi usiamo anche la pinzatrice, caso mai dovessero scollarsi. Ho un’idea! Le stoffe più bruttine le coloriamo dando una pennellata qua e là e quelle più impolverate le ripuliamo».

E così dicendo ci mettemmo di buona lena, lavorando tutta la notte. E che lavoro!

«Ok! Fatto!»

«Miaoo, ne è rimasta ancora una, proprio lì, sotto la persiana» fece notare il gatto ormai stanco.

Era una stoffa leggera e delicata, color crema. Una traccia di fiocco rosa la guarniva. Cercai di richiamare alla mente qualche episodio legato a essa, ma non ci fu verso di ricavarne neanche un più labile e sbiadito ricordo. Esitai un attimo e poi risposi: «Ma sì dai appiccichiamola non si sa mai…potrebbe servire».

Mi svegliò un nugolo di gatti che con i loro litigi crearono un tafferuglio. Il rossore dell’alba colorava il terrazzino e il mio viso. L’unica stoffa che avevo in mano era quella della mia camiciola.