A’ vanedda

A’ vanedda

Una selezione del racconto di Chiara Cataldi premiato nella Sezione Racconti autobiografici della 3a edizione di Thrinakìa 2016-2017 Premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia

Scritture solidali
Scritture autobiografiche di redenzione e rinascita che mettono in luce sentimenti di solidarietà verso sé stessi, gli altri e il mondo, e sollecitano un’autentica solidarietà fra le lettrici e i lettori.
Archivio della memoria e dell’immaginario siciliano
Ateliers dell’immaginario autobiografico © OdV Le Stelle in Tasca

A’ vanedda
Chiara Cataldi

In memoria di Chiara Cataldi
La ricorderemo tutte-i con quel sorriso che le illuminava il volto e irradiava serenità.

Vanedda è una parola siciliana. Vuol dire stradina, vicoletto.

Mia nonna paterna abitava in una vanedda di Modica, nella parte antica della città. La strada si chiama Via Santi Quaranta, e lei abitava al civico quaranta. Quando mio papà aveva conosciuto la mia mamma, e forse non erano ancora neanche fidanzati, le aveva detto che abitava, appunto, in Via Santi Quaranta n. 40. La mia mamma aveva pensato a uno scherzo. Di sicuro non è proprio il modo migliore per iniziare una relazione…

La vanedda è una strada molto stretta e lunga, in cui sicuramente non riesce a passare un’auto. L’auto riusciva ad arrivare fino a un certo punto, proprio all’inizio, e poi si fermava là. Per la precisione, arrivava fino a dove c’erano i cassonetti della spazzatura, che in realtà non erano veri cassonetti ma quei piccoli contenitori che si aprivano dall’alto. E comunque al massimo la spazzatura venivano a ritirarla con l’ape.

La bellezza della vanedda stava nel fatto di essere molto vissuta durante tutto l’arco della giornata – escludendo naturalmente le ore centrali alias “coprifuoco al contrario”, che in estate viene rispettato in qualsiasi paesino o città della Sicilia.

Insomma, la mattina fino alle dodici e dopo le sedici, in strada c’eravamo sempre noi ragazzi che giocavamo, scorrazzando per tutta la sua lunghezza. Inoltre, essendo molto stretta, la densità umana aumentava in fretta: bastava essere in tre e già non si passava più. Nei punti più stretti, addirittura, allargando le braccia si riuscivano a toccare i due muri.

Anche la sera c’era un discreto movimento, perché stavano fuori anche gli adulti, a chiacchierare e a godere del fresco.

I giochi che andavano per la maggiore erano Nascondino, Strega Comanda Colore, Stregone mangia frutta (che a dire il vero non ricordo in cosa consistesse, ma ricordo bene il nome, anche perché una bambina non riusciva a dire la “r”, quindi le usciva sempre un divertentissimo “fLutta”) e Un due tre stella!

Giocare a nascondino era effettivamente una tragedia per chi doveva contare e un gran divertimento per chi si doveva nascondere, perché in una stradina stretta e lunga, piena di anfratti e nicchie, nascondersi era facilissimo e altrettanto fare tana, quando chi contava si trovava all’altro capo del vicolo.

Ci piaceva anche il gioco Nomi cose città. Ci mettevamo sul terrazzino di Daniela, seduti sui gradini delle scale, con foglio e penna sulle ginocchia, e venivano fuori cose molto creative.

La sera ci dedicavamo a giochi più contemplativi, tipo Telefono senza fili. Ognuno portava la sua seggioletta, che veniva intervallata alle soglie di case, e così seduti ci parlavamo fitto fitto all’orecchio. Una fila di non meno di dieci bambini, dai tre ai quindici anni, che sussurravano e ridacchiavano. Anche in quel caso uscivano fuori frasi estremamente fantasiose. Una sera, ad esempio, “l’elefante si dondolava sul filo di una ragnatela” fu trasformato in “il rinoceronte stava fisso sulla barca a vela”.

C’era un bambino, forse si chiamava Ignazio, che ogni giorno portava fuori qualche gioco nuovo: un trattore, un cagnolino automatico, una palla. Sinceramente non so come facesse: forse il papà lavorava in un negozio di giocattoli? Lui comunque abitava già verso la fine della vanedda, dove abitavano meno bambini… una zona più marginale insomma (e parliamo di 50 metri al massimo). Questo, insieme al fatto di godere di una così vasta scelta di giochi, lo rendeva un po’ un outsider!

La cosa che più mi piaceva era il fatto che la casa della nonna si trovasse proprio al centro della vanedda, in corrispondenza dell’arco con la scalinata che portava alla strada sottostante, Via Carlo Papa. Era una delle tre vie di accesso alla strada: da sotto da destra o da sinistra. Così, quando da via Carlo Papa si percorreva la scala verso la vanedda, si scorgeva subito la porta di casa di nonna, che era spesso aperta. Lei stava seduta dentro, ma sempre a fianco della porta. Aveva una sediolina di legno con la seduta di corda, e sopra ci teneva un bel cuscino di lana colorata fatto ai ferri. Nel tardo pomeriggio, con la sedia si trasferiva fuori, accanto alla porta, e prendeva il fresco, mentre faceva l’uncinetto.

[Piccolo inciso sul fatto che la nonna prendesse il fresco. La casa della nonna era il luogo più fresco di tutta Modica. Essendo addossata al fianco della montagna, era scavata per un pezzetto nella roccia. E, infatti, pare che nell’atto di vendita, la descrizione dell’immobile recitasse “piccolo dammuso in parte grotta”. Ora per favore non pensate ai romantici dammusi di Pantelleria! La situazione è più simile ai Sassi di Matera, ecco! Comunque sia, tale conformazione fungeva da perfetto cappotto termico: la casa era calda d’inverno e fresca d’estate. Pertanto, quando la nonna diceva di sentire caldo, voleva dire che percepiva 26°C al massimo. Allora aspettava il tardo pomeriggio, prendeva la sediola e si sistemava fuori].

Nella vanedda c’era sempre un grande scambio di cibi. Era automatico: chiunque cucinava qualcosa di buono/particolare/abbondante (insomma sempre!) lo faceva assaggiare ai vicini di casa. Piatti, piattini, cartocci viaggiavano da una casa all’altra, con la scusa che “siccome le case sono vicine, si sente l’odore quello che cucini” e soprattutto alla presenza di una donna in stato interessante “non ti puoi mica prendere la responsabilità di far venire le voglie alla gestante, senza poi esaudirle”!

Ancora a proposito di cibo, in fondo alla vanedda c’era la putia di Don Carlo, cioè la bottega, un alimentari/emporio che aveva un po’ di tutto, e che serviva tutto il quartiere. Andavamo lì per comprarci la merenda: ci precipitavamo in massa nella sua bottega, facendo le gare di velocità per la strada, e poi compravamo il gelato, oppure mezzo panino con prosciutto e provolone, o con la nutella. Don Carlo aveva un boccione di Nutella (a volte bianca e nera, altre solo nera) che teneva sotto il bancone come fosse un tesoro e che tirava fuori all’occorrenza. Ed era davvero un barattolo gigante, non è il ricordo che mi inganna (ma non tanto grande quanto quello di Moretti in Bianca!).

Altre volte invece ci andavo da sola, a comprare un mazzo di tinniruma (le foglie delle zucchine, che si fanno lessare e sono buonissime), una bottiglia di acqua Fiuggi per la nonna o un etto di mortadella. Ripetevo la lista della spesa come un mantra per tutto il tragitto, stringendo in una mano i soldi che mi aveva dato la nonna prelevandoli dal portamonete di pelle nero che teneva sulla lavatrice. Mortadella-acqua-tinniruma-mortadella-acqua-tinniruma-mortadella-acqua-tinniruma. Poi, arrivata a due metri dalla bottega, mi distraevo un attimo e puntualmente mi dimenticavo tutto. E dovevo tornare indietro.